Quest'opera non presenta in sé un particolare valore per quanto riguarda il rilievo delle opinioni filosofiche espressevi (relativamente al contesto culturale in cui visse l'autore), bensì la sua grande importanza risiede nel mostrare quali furono i rapporti , nei primi secoli dopo Cristo, tra la nascente religione cristiana e l'affermata cultura classica-ellenistica. Il rapporto tra cristianesimo e cultura greco-romana è infatti complesso (tanto che, a ben guardare, non si può nemmeno parlare di una vera e propria vittoria del primo nella Tarda Antichità) e la visione più diffusa , ossia quella propinataci dai testi scolastici, è molto semplicistica e spesso imprecisa.
Nella critica che Celso , autore dell'epoca di Marc'Aurelio , effettua nei confronti del pensiero giudaico-cristiano, si evincono punti fondamentali della storia della cultura occidentale: la critica innanzitutto all'assenza , da parte dei cristiani, di una volontà di indagine razionale, che invece era uno dei cardini del pensiero Platonico, ostile al dogmatismo. Emerge poi l'accusa al cristianesimo di propinare una verità assoluta senza dare spazio di dibattito agli altri culti e alle altre filosofie (emblematico il punto dove Celso asserisce che la credibilità della figura di Cristo Figlio di Dio è pari a quella di molti eroi della mitologia greco-romana). Celso arriva a teorizzare che l'intera dottrina cristiana altro non sia che un fraintendimento di alcuni pensieri di Platone.
Ciò che più stupisce è però notare , dalle accuse dell'autore ai cristiani , come il cristianesimo abbia introdotto numerosi concetti allora del tutto estranei alla cultura classica , anzi totalmente rivoluzionari, come la centralità dell'uomo nel cosmo, un elemento che oramai la nostra cultura ha assimilato a tal punto, attraverso i secoli, da assumerlo come dogma etico scordandosi la sua origine giudaico-cristiana.